Franz Kafka, scrittore boemo, di lingua tedesca, ha scritto quasi tutte le sue opere di notte, come del resto molti poeti, mentre tutto il mondo fuori dormiva, e rilasciava il proprio respiro profondo, e forse proprio per questo l’intera sua scrittura è sempre intrinsecamente vicina al sogno o meglio all’incubo. Un incubo niente affatto colorato di immagini favolistiche o dall’ambientazione infantile e memoriale, quanto piuttosto un sogno sempre reale e quasi fotografico. Ma per chi lo legge, i suoi sono comunque incubi soavi e profondi, tormentati e irrisolti, imbevuti di uno strano realismo tragico e immobile.
Il Castello è l’ultimo sforzo dello scrittore di Praga, opera incompiuta e indecifrabile, ripudiata dall’autore stesso, dalla scrittura circolare e labirintica, frammentaria per sua stessa ammissione e forse proprio per questo bellissima e inspiegabile. Racconta di un uomo di mezza età, assunto presso uno strano villaggio, per svolgere l’attività di agrimensore, ma per iniziare la quale occorre l’autorizzazione del Castello sopra al villaggio stesso. Questa benedetta autorizzazione, per tutto il tempo anelata dal protagonista K., verrà ricercata fino allo spasimo, ma purtroppo mai raggiunta in un interminabile circolo vizioso dove tutto accade, perché nulla accada.
Si dice che Kafka leggesse i suoi libri agli amici ad alta voce, subito dopo averli scritti, e che nel caso del Castello lo abbia fatto ridendo, quasi tutto il tempo, raccontando cioè l’iperbolica tragicità di quella storia di solitudine e terribile angoscia, le cui vette potevano condurre solo ad una grottesca e corrosiva risata.
ispirato a Il Castello di Kafka
regia Giuseppe Amato
con Christian Renzicchi e Monica Garavello
coproduzione ariaTeatro e Fondazione CastelPergine Onlus